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Scambio di idee su passato e futuro con il “connettivista”

di Matteo Crestani

 

Ama definirsi il “connettivista”, ma forse lo è davvero. Il prof. Claudio Ronco, numero uno tra i nefrologi mondiali, ci ha concesso un’intervista per far conoscere cosa c’è sotto la pelle dello scienziato. Senza dubbio un grande manager, che ha saputo realizzare grandi progetti per la propria vita, nonché per la città di Vicenza. Percorriamo assieme questo entusiasmante viaggio alla scoperta di un vicentino doc.

 

Quando ha pensato di diventare medico?

“Vengo da una famiglia di medici. E questo mi ha permesso di evolvere nel mio pensiero. Sono rimasto molto affascinato, poi, essendo appassionato di musica, da un pensiero dell’organista Albert Schweitzer, che riteneva fosse un grande privilegio, come medico, poter alleviare i dolori di una persona, perché il dolore rende l’uomo schiavo ancor più della morte”.

 

Come ha iniziato?

“Quando ero bambino, con degli amici ci siamo avventurati in una zona pericolosa dell’Altopiano di Asiago ed un ragazzo si era tagliato la femorale ed io, con la cinghia, sono riuscito a fermargli l’emorragia. Quello è stato il mio primo “intervento medico”. L’inizio vero è proprio, però, è stato con l’iscrizione a Medicina. Eravamo in 1700 iscritti e le lezioni erano complesse, in quanto le aule avevano una capienza ridotta”.

 

Com’è andata l’esperienza universitaria?

“Con i miei tre compagni di studio ho deciso di andare a vivere a Padova. Abbiamo studiato assieme e siamo arrivati lo stesso giorno, con entusiasmo, alla laurea. Mano a mano che gli studi proseguivano, però, mi rendevo conto che c’era molto che si poteva fare. Sognavo già a quel tempo di poter dare un contributo che rimanesse nella storia”.

 

Quando è nato l’innamoramento per la Nefrologia?

“In realtà si è trattato di un amore senile, perché sono sempre stato innamorato della Cardiologia. Ho provato a frequentare il reparto di Cardiologia a Padova, ma non essendoci posto mi hanno mandato in Nefrologia. Poi ho provato a fare la tesi in Cardiologia, ma non è stato possibile e mi hanno assegnato una tesi in Nefrologia. Al momento della specialità non c’era posto in Cardiologia e mi hanno destinato alla Nefrologia. Rientrato a Vicenza dovevo lavorare in Cardiologia, ma ugualmente sono stato assegnato alla Nefrologia, di cui a breve mi sono innamorato per la sua multidisciplinarietà”.

 

Oggi è conosciuto nel mondo come il connettivista, perché?

“La Nefrologia implica la conoscenza del linguaggio di diverse discipline, per poter mettere assieme dei progetti che abbiano una sostanza e sostenibilità. È un insieme di elementi in cui le diverse sfaccettature del progetto vengono prese in carico da un grande progetto multidisciplinare. E su questo concetto è nato l’Irriv, le cui radici sono in un libro di fantascienza che ho letto tanti anni fa. A bordo di un’astronave c’erano tanti scienziati, tra cui uno che metteva insieme le competenze di tutti gli altri ed era chiamato il connettivista”.

 

E l’esperienza americana?

“Il mio sogno è sempre stato quello di andare a studiare in America, ma diverse contingenze richiedevano che io lavorassi per potermi mantenere. Solo a trent’anni questo desiderio è diventato realtà, grazie ad una borsa di studio che mi ha permesso di andare a New York per tre anni. Ogni giorno è stato segnato da una conquista. Avevo compreso il modo di pensare degli americani ed acquisito il metodo scientifico e questo mi aveva consentito di fare un balzo importante nella Nefrologia internazionale. La prima volta in America ero preoccupato di fare il massimo dell’esperienza, pensando che non mi sarebbe più capitata una simile occasione”. 

 

In realtà, poi, ci è tornato molte altre volte…

“Proprio così, anche invitato da loro. Nel 1996 sono tornato a fare il visiting professor a Washington e nel 1999/2000 il full professor of Medicine all’Università di New York, dove ho diretto il Renal research institute per due anni. Un’esperienza che mi ha portato al limite della decisione di non tornare più indietro, in Italia. L’allora dg dell’Ulss 6 Vicenza, Antonio Petrella, è venuto a trovarmi assicurandomi che mi avrebbe fatto fare il concorso di primario. Un grande finanziamento della Fondazione Cariverona mi permise di realizzare un nuovo reparto, ancora oggi straordinariamente moderno. E nel 2008, non senza difficoltà, è nato l’Irriv, International renal research institute of Vicenza, inaugurato nel 2010 dal prof. Umberto Veronesi e dal presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che pronunciò una frase significativa: non avete costruito un istituto di ricerca per fare ricerca, ma avete dato un vestito alla ricerca che già stavate facendo”.

 

Il più grande insuccesso, o la cosa che non è riuscito a fare?

“Penso sempre che si sarebbe potuto fare di più. A Vicenza abbiamo formato centinaia di medici di tutto il mondo, alcuni dei quali sono diventati professori ordinari nelle loro Università. Ciononostante, avrei voluto trasmettere ancor di più il mio entusiasmo, ma non è stato sempre facile con gli studenti italiani, così come con quelli che venivano da fuori. Posso dire di aver realizzato la gran parte degli obiettivi che avevo, anche se mi sarebbe piaciuto molto dar vita ad un centro di simulazione per insegnare agli studenti a mettere in pratica ciò che avevano imparato. Ostacoli burocratici, purtroppo, hanno impedito che tutto ciò diventasse realtà. In pochi mesi, a Cincinnati, lo stesso progetto è stato realizzato”.

 

Nel 2018 è arrivato il titolo di professore ordinario dell’Università di Padova…

“Il primo problema che ho avuto quando mi sono confrontato con il mondo accademico è che ero al top del ranking per i titoli e le pubblicazioni. Per questo, però, la mia soddisfazione è stata grandissima, così come il rapporto con gli studenti, che prima non potevo avere, in quanto l’Università non voleva mandare studenti a Vicenza. Ancora oggi molti ragazzi mi scrivono per aggiornarmi su come sta progredendo la loro carriera”.

 

Il nostro Paese è lento?

“Il nostro Paese è stranamente lentissimo, fatto di burocrazia, ma ci sono molte persone in gamba che fanno delle cose meravigliose. È sorprendente, è inaspettato. La ricerca italiana all’estero, infatti, è piuttosto apprezzata, si caratterizza per una grande creatività e capacità di sintesi. Il nostro Paese è lento, tende a premiare la mediocrità, ma sorprendentemente germinano idee e ricerche molto belle. In America il sistema ti aiuta, da noi il sistema ti ostacola”.

 

Come sono i giovani di oggi?

“I giovani di oggi sono come l’aspetto economico della società. Quelli bravi sono molto più bravi di come eravamo noi, ma altrettanto vale per quelli scarsi. Noi eravamo una grande popolazione di studenti medi. I giovani d’oggi sono cresciuti in un ambiente non competitivo, dove mediocrità o bravura sono sostanzialmente la stessa cosa. Sono disposti a guadagnare meno, pur di avere del tempo libero. Potrebbe sembrare una scelta di vita, ma la verità è che possono fare questo solo perché i genitori integrano le loro entrate”.

 

È colpa delle famiglie, dunque…

“Senza dubbio. La gran parte dei genitori è cresciuta con il concetto che i loro figli sono tutti dei geni e che ogni colpa è di qualcun altro. In un sistema che non riconosce il merito, poi, viene indebolito il concetto che se fai vieni premiato. C’è una sorta di rassegnazione, per cui fare o non fare sembra essere la stessa cosa. Anche in un sistema becero come il nostro, però, alla fine si ottiene ciò che ci si prefigge. Ed io ne sono l’esempio”.

Ci sono state delle persone che le hanno fatto capire queste cose?

“Tutti noi incontriamo delle persone importanti, ma solo se lo vogliamo facciamo di loro dei mentori, altrimenti passano senza lasciare il segno. Io ho trovato alcune persone che mi hanno lasciato un segno, tra queste il primario Giuseppe La Greca. Era un barone, ma anche una persona illuminata, che mi ha indicato il percorso da seguire. Ho trovato un paio di persone in America, che sono diventate la mia ispirazione. Un giovane di Brasilia mi scrive ogni giorno, perché sogna di diventare come me. Non ce n’è uno, in Italia, che sogna di diventare come me”.

 

Cosa la emoziona, nella quotidianità?
“Tutto. Io sono un entusiasta. Nella cucina, nella musica, nello sport, nel condurre a termine una ricerca provo grande soddisfazione. In questi giorni attendo la nascita della mia prima nipotina. Le ho scritto un libro di favole, ho composto dieci ninne nanne, sto scrivendo un altro libro sulla musica. Mi emoziona tutto. Vedere che dei miei allievi stanno facendo delle cose importanti e mi considerano il loro papà scientifico, così come è emozionante, in America, trovarsi davanti ad una platea di 15mila persone che attendono che gli indichi il percorso da seguire nei prossimi cinque anni”.

 

È sempre riuscito a fare quello che le piaceva?
“Sì. Molti dicono che ho avuto fortuna, ed è vero. Ma ci sono tre treni della fortuna: tu sei in stazione ed il treno non passa mai; il treno passa e tu sei lì, per caso; poi c’è il treno della fortuna che tu aspetti e sei lì a prenderlo, quindi la tua determinazione ti porta ad avere fortuna. Ho avuto fortuna, ma non è mai caduta dal cielo”.

 

Un sogno nel cassetto…

“Il mio sogno era quello di suonare con una grande band. E ci sono riuscito, perché ho suonato con I Nomadi in Piazza dei Signori. Vorrei riuscire a suonare, però, come loro. Vorrei pattinare e giocare come i grandi dell’hockey. Il mio vero sogno, infine, sarebbe che qualche persona, leggendo i miei libri, guardando la mia storia, capisse che si può fare. Questo è il sogno di lasciare un’eredità morale. Mio padre ha lasciato a me ed a mio figlio un’importante eredità. Spero di riuscire a fare altrettanto anche con la mia città, attraverso l’istituto che abbiamo costruito e che mi auguro non si interrompa. Non sarà semplice, perché ci vuole impegno e determinazione. Vicenza non è New York, le cose non arrivano se non le si fanno arrivare”.

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